L’interventismo dei letterati e degli artisti. La letteratura va in guerra
di Simonetta Bartolini
Il termine interventismo nasce e si diffonde con valore storico-politico: allo scoppio della guerra, nell’agosto del ’14, la dichiarazione di neutralità dell’Italia innesca il dibattito fra neutralisti e coloro che, riconoscendo la iniziale necessità politico-diplomatica di tale passaggio, vedono nella dichiarazione di guerra della Germania alla Francia il motivo decisivo per intervenire nel conflitto e farlo in soccorso della cugina d’oltralpe.
Sono soprattutto gli intellettuali a spingere in tal senso, e fra essi una funzione determinante è assunta da letterati e artisti che rispetto ad una guerra, che oltretutto non coinvolge direttamente il suolo italiano, sarebbero rimasti sostanzialmente tiepidi, come scrivono Papini e Soffici nel trafiletto introduttivo del numero del 15 agosto 1914 di «Lacerba»: «Se la guerra presente fosse soltanto politica ed economica, noi pur non restando indifferenti, ce ne saremmo occupati piuttosto alla lontana». Ma il pericolo rappresentato dal pangermanismo, che con l’attacco alla Francia diventava una possibilità di realizzazione concreta, provoca la reazione proprio degli intellettuali che videro nel conflitto uno scontro fra due culture, quella tedesca alla quale si imputava un’egemonia da tempo filtrata all’interno dell’identità italiana, e quella latina rappresentata in questo frangente dalla Francia sotto attacco.
La campagna interventista così si nutre di due spinte, presto divenute complementari: quella squisitamente politica e quella culturale; se la questione delle terre irredente, nella fase iniziale, anima soprattutto gli intellettuali triestini di ambito vociano, la supremazia culturale –che secondo molti la Germania ha imposto fino ad ora, e che con una vittoria in questa guerra diventerebbe egemone e totalizzante– accende gli animi di letterati e artisti ad un maggiore coinvolgimento.
Si muoveranno su questa linea oltre ai lacerbiani Soffici e Papini, e parte dei vociani (ma con qualche distinguo dovuto alla formazione di Prezzolini maggiormente coinvolto, almeno all’inizio, da questioni più squisitamente politiche), Borgese, che pure è professore universitario di letteratura tedesca e Ojetti, i quali in due pamphlet usciti nel 1915, nella neonata collana dell’editore Ravà di Milano intitolata Affari italiani (opuscoli di 32 pagine dedicati a «[…] informare gli italiani sui problemi nazionali più urgenti in questa crisi della nostra storia della nostra coscienza») si dedicano ad una accurata analisi delle condizioni storico culturali che li inducono a riconoscere nella Germania il nemico contro il quale schierarsi.
I dieci mesi di militanza interventista di scrittori e artisti con entrata dell’Italia in guerra, sfocia, come è noto, in un eccezionale arruolamento volontario di quanti avevano invocato la guerra indipendentemente dagli obblighi di mobilitazione per classi anagrafiche.
L’interventismo, che a questo punto dovrebbe considerarsi naturalmente esaurito, prosegue attraverso gli stessi protagonisti in forme che ne mutano l’originale valore storico-politico per trasformarsi in funzione letteraria. Avviene una sorta di passaggio dell’impegno interventista dai letterati alla loro opera che assume il compito di sanare quella latitanza che De Robertis aveva lamentato nei mesi precedenti al conflitto, rivendicando il diritto a occuparsi di letteratura anche nel totalizzante clima politico pre-bellico.
Così la letteratura interviene in guerra con le sue proprie armi, scende sul campo di battaglia, si schiera al fronte nutrendosi di testimonianze. Nasce quello che oggi noi possiamo definire un nuovo genere letterario: la letteratura della Grande Guerra che si formalizza in diari, memoriali e romanzi autobiografici nei quali la cifra unitaria è originata dalla comune percezione di star vivendo un’esperienza dalle caratteristiche inedite e inattese. È la guerra moderna che inchioda i soldati in trincea, è la guerra di macchine, di ferro, di gas dove il modello di combattimento fino ad allora conosciuto è scomparso, l’eroismo impossibile nelle forme tradizionali, l’orrore moltiplicato oltre ogni ragionevole previsione.
Ma è anche la guerra che mostra agli intellettuali, alfieri della necessità della rivoluzione delle avanguardie, gli aspetti più devastanti di quella modernità caratterizzata dalla supremazia sull’uomo della tecnologia e delle macchine che in guerra manifestano tutta la loro terribile egemonia.
Nasce in questo modo, proprio dall’intervento della letteratura in guerra, il racconto epico che mostra lo scontro ineguale fra l’uomo e la macchina, in questo senso diari, memoriali e romanzi di ispirazione autobiografica di Soffici, Stanghellini, Gadda, Frescura, Pastorino, Monelli, Salsa, Jahier, Lussu, Marinetti, de Lollis, d’Amico, Alvaro, Borgese, Stuparich andranno a costituire il nucleo significativo del corpus dell’epica della Grande Guerra.