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Giuseppe Parlato docente all'Università Internazionale di Roma (Unint) Giuseppe Parlato docente all'Università Internazionale di Roma (Unint)
24 Novembre 2015
Gli approfondimenti
 

L’interventismo come rigenerazione nazionale e rivoluzionaria. Corridoni e il sindacalismo rivoluzionario

di Giuseppe Parlato

 

Nel vasto e variegato panorama degli “interventismi”, un posto a sé viene riservato dalla storiografia al sindacalismo rivoluzionario.

I sindacalisti rivoluzionari, nati ai primi del nuovo secolo seguendo le teorie di Georges Sorel, avevano contrapposto, nel corso di una elaborazione sofferta e meditata, al determinismo del marxismo la visione spontaneistica e insurrezionalistica fondata sul mito dello sciopero generale. Ma , soprattutto, avevano messo in discussione uno degli assiomi più radicati e mitici del marxismo e, in genere, della sinistra rivoluzionaria: l’internazionalismo. Essi avevano inoltre contestato il ruolo dello Stato, sostenendo con vigore una battaglia liberista in economia e libertaria in politica.

Guidati dottrinalmente da un gruppo di intellettuali riunitisi attorno alla rivista “Pagine Libere”, il sindacalismo rivoluzionario aveva come riferimenti operativi e organizzativi due sindacalisti di notevole valore come Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, i quali, tra Milano e Parma, tra il 1908 e il 1915, condussero la battaglia sindacalista contro il riformismo e il velleitarismo rivoluzionario dei socialisti.

Delusi dai fallimenti degli scioperi milanesi del 1913 e, soprattutto, dal tracollo della “Settimana Rossa” nelle Marche e in Romagna del 1914, i sindacalisti rivoluzionari operarono una profonda e sofferta svolta che li portò, nelle prime settimane dopo lo scoppio del conflitto, dall’iniziale pacifismo a diventare la punta di diamante dell’interventismo rivoluzionario.

Esso si chiamò così perché il progetto dei sindacalisti rivoluzionari era quello di raggiungere lo scopo finale (la Rivoluzione sociale) attraverso le trasformazioni che il conflitto mondiale avrebbe determinato. Furono tra i pochi a comprendere che la guerra non avrebbe lasciato nulla come prima; in particolare, essi avevano intuito che le masse non sarebbero rimaste inerti dopo la mobilitazione della guerra e avrebbero preteso, in maniera ben più determinata che non nel passato, uno spazio di potere assai maggiore e rilevante.

Filippo Corridoni (1887-1915) fu un giovanissimo agitatore sindacalista, formatosi sugli ideali risorgimentali – in particolare mazziniani – e avvicinatosi successivamente nel socialismo rivoluzionario. Convinto assertore dell’autogoverno delle categorie produttive e feroce nemico dello Stato, Corridoni aveva saputo conquistarsi, con la sua cultura da autodidatta e con un eloquio trascinante, una larga parte di lavoratori facendo della sua Unione Sindacale di Milano una delle due roccaforti del sindacalismo rivoluzionario (l’altra era la Parma di De Ambris).

“La Patria non si nega, si conquista”: questo motto, tipico del sindacalismo rivoluzionario, una volta ripudiato l’internazionalismo, divenne il programma di una guerra che si voleva rivoluzionaria. Se le masse popolari non erano state in grado di insorgere attraverso lo sciopero generale, ora con la guerra sarà possibile. Una guerra di civiltà, dove la libertà dovrà sconfiggere la barbarie, dove il popolo avrà ragione del potere politico, dove il mito della Repubblica dovrà infrangere le residue sacche di conservatorismo.

Ma la rigenerazione rivoluzionaria, per i sindacalisti rivoluzionari, si dovrà accompagnare alla rigenerazione nazionale. Un’Italia, giunta al cinquantennio della sua esistenza unitaria senza eroismi, senza sacrifici, senza la consapevolezza necessaria del proprio essere Nazione, non aveva senso: la guerra era la grande occasione per realizzare una sorta di “nazionalizzazione delle masse”. Il pedagogismo dei sindacalisti rivoluzionari, la vasta propaganda nelle file dell’esercito che loro stessi – e Corridoni in particolare – avevano svolto stavano a dimostrare che la guerra era l’occasione da non perdere per diventare effettivamente “nazione”. E per dimostrarlo occorreva anche mettere in gioco le proprie vite, come accadde a Filippo Corridoni, caduto alla Trincea delle Frasche, durante un assalto, nei pressi di dove oggi sorge il Sacrario di Redipuglia.

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