Marini 'Un secolo fa l'Italia in guerra, la tragedia e l'unità nazionale'
Sulle pagine de Il Messaggero del 23 Maggio scorso, il commento del Presidente del Comitato storico scientifico per gli anniversari di interesse nazionale, Franco Marini, sul centenario dell'ingresso italiano nella Grande Guerra.
E' trascorso esattamente un secolo. Il 24 maggio 1915 i fanti attraversavano <il Piave calmo e placido>. Era la guerra. Il giovanissimo regno italiano mandava i suoi uomini a combattere contro l'impero dell'aquila bifronte, l'Austria-Ungheria. Il conflitto che tutti avremmo imparato a conoscere come Grande Guerra infuriava sul vecchio continente da dieci mesi. E già aveva ingoiato una buona fetta dei quindici milioni di morti che rappresenta la cifra finale della carneficina cessata solo nel novembre del 1918. <Eravamo dei cittadini laboriosi, siamo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari> dirà più tardi lo scrittore austriaco Robert Musil.
L'Italia entrava nel conflitto a fianco delle nazioni dell'Intesa dopo l'accordo firmato il 26 aprile a Londra dal ministro degli Esteri Sonnino e noto solo al presidente del Consiglio Salandra e al re Vittorio Emanuele III. Il Parlamento, a maggioranza neutralista, era stato ignorato e scavalcato. Sarebbero occorse le "radiose giornate di maggio" e la veemente retorica bellicista di Gabriele D'Annunzio in particolare contro Giovanni Giolitti, principale ispiratore del "partito neutralista", per piegare la volontà dei parlamentari. Dallo scoppio della guerra, a fine luglio del '14, nel Paese si fronteggiavano due compositi schieramenti, interventisti e neutralisti, mentre sullo sfondo si tesseva un'intensa e complessa attività diplomatica. Alla fine, dunque, l'Italia entrò in guerra contro i vecchi alleati della Triplice per riportare entro i suoi confini le "terre irredente", Trento e Trieste. Non per caso infatti si parlò anche di quarta guerra d'indipendenza, occasione per completare il Risorgimento italiano.
I costi di quaranta mesi di conflitto furono altissimi. Il bilancio di morti, circa seicentocinquantamila, supera di gran lunga quello della seconda guerra mondiale. Mezzo milione di mutilati e invalidi. Seicentomila prigionieri. Perfino il numero dei militari processati e mandati a morte davanti al plotone di esecuzione o per decimazione - circa 1300 - è più alto di quello delle altre nazioni che pure avevano al fronte eserciti decisamente superiori al nostro. Questo è un capitolo da riaprire, una pagina oscura da rileggere e l'occasione del centenario va colta per fare chiarezza e restituire l'onore a quanti, come sostengono molti storici e suggerisce anche il buon senso, furono vittime di ingiustizie e di disumane esecuzioni sommarie.
La Grande Guerra è stata per l'Italia, come per il resto d'Europa, una insaziabile fornace. Classi dirigenti composte da <sonnambuli>, secondo l'appropriata formula coniata dallo storico inglese Christopher Clark, provocarono non solo <l'inutile strage> ma piantarono i presupposti per l'apparizione dei totalitarismi sul suolo europeo e per la nuova deflagrazione mondiale dopo appena due decenni. Anche per l'Italia il <mondo di ieri>, per usare l'espressione con cui lo scrittore e poeta austriaco Stefan Zweig indica la società prebellica, viene spazzato via dallo scoppio della Grande Guerra.
Eppure nelle trincee, nella sofferenza e nell'incredibile sforzo corale di tutto il Paese, dalle cime alpine al minuscolo
comune siciliano, si completa il processo di unità nazionale. Ha scritto lo storico Antonio Gibelli: <La macchina da guerra agisce come un fattore di omologazione, come un grande e terribile riduttore delle diversità. L'esperienza compiuta era stata decisiva per rendere più uniformi costumi e linguaggi. La guerra era stata un corso accelerato e forzato di inquadramento nella nazione>. Già nel 1923, Benedetto Croce riconosceva che la guerra aveva reso <più viva l'idea della patria> come si ricavava dal fatto che <non era immortalata come una volta nei soli stemmi degli edifici pubblici, nei tricolori delle bandiere, nei ritratti dei sovrani ma nei monumenti che ricordavano in ciascun luogo i caduti>.
Oggi, a distanza di cento anni da quella data, non abbiamo nulla da celebrare. Perché la guerra non si celebra. Ma ricordare sì, eccome. E' questo il senso del minuto di silenzio chiesto per oggi, alle 15, a tutti gli italiani dal governo. Ed anche di iniziative come lo splendido Requiem di Verdi, in onore di tutti i caduti, diretto dal maestro Muti la scorsa estate a Redipuglia.
Gli anniversari costituiscono un'occasione unica. Se ad essi affidiamo solo la missione di riproporre storie e vicende lontane nel tempo senza sforzarci di leggerle con libertà ne stiamo svuotando il senso più profondo e diamo ragione a quanti pensano che gli anniversari siano un omaggio che si rende al passato per accantonarlo.
Allora questo anniversario deve servire ad allargare la conoscenza di un evento che ha segnato indelebilmente la storia italiana e mondiale e consentire la diffusione di una cultura della pace che non vuole essere solo rifiuto dell'uso delle armi ma adesione personale e collettiva all'idea che occorrono ponti e non muri, che solo un'instancabile, quotidiana e fiduciosa azione finalizzata a superare diffidenze ed ingiustizie può tenere lontana dalle nostre comunità lo spettro dei conflitti. Dentro questa cultura di pace trova posto il sogno europeo, quell’Europa unita, proposta dai Padri fondatori, De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet, proprio come antidoto alla tentazione di risolvere con le armi conflitti e contrasti tra gli Stati del continente. Oggi, mentre onoriamo senza alcuna incertezza chi è caduto per l'unità del nostro Paese, ancor più di ieri dobbiamo far nostro il monito che poco prima di morire, nel 1995, a quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Mitterrand volle rivolgere al Parlamento di Strasburgo: <Sappiate, ce lo insegna la storia: l’ unica alternativa all’Europa unita è la guerra>