Marini:ricordare affondamento del piroscafo "Principe Umberto" serva a radicare la cultura della pace
A cento anni dall'affondamento del piroscafo ‘Principe Umberto’, avvenuto l’8 giugno 1916, Treviso ricorda le 1764 vittime, tra i quali 521 trevigiani. Il presidente del Comitato storico scientifico per gli anniversari di interesse nazionale, Franco Marini, ha partecipato alla cerimonia di commemorazione. Riportiamo il suo intervento:
Autorità civili e militari,
signore e signori
desidero innanzitutto ringraziare il sindaco di Treviso Giovanni Manildo, il prefetto Laura Lega ed il sindaco di Casier Miriam Giuriati per l'invito a partecipare a questa intensa cerimonia in occasione del centenario dell'affondamento del piroscafo "Principe Umberto" in cui perirono 1764 soldati del 55° Reggimento Fanteria della Brigata "Marche".
Esprimo a nome del Comitato storico scientifico per gli anniversari di interesse nazionale e mio personale un caloroso apprezzamento per questa iniziativa che ha saputo cogliere un sentimento profondo della comunità trevigiana, particolarmente colpita da quell'evento drammatico: quella tragica sera nel canale d'Otranto trovarono la morte 521 militari trevigiani.
L'affondamento del piroscafo "Principe Umberto" è annoverato quale più grande tragedia navale italiana nel corso della prima Guerra mondiale. Centinaia di giovani vite spazzate via, come ci dicono gli atti e le cronache, nel giro di pochi minuti.
E la Grande Guerra, <catastrofe originaria del XX secolo>, come ha scritto lo storico e diplomatico americanoGeorge F. Kennan, di giovani vite ne stroncò all'incirca dieci milioni, di cui seicentomila nostri connazionali, giunti da ogni parte d'Italia a combattere proprio in queste regioni di confine con l'impero austro ungarico.
L'affondamento avvenne a poco più di un anno dall'entrata in guerra dell'Italia, il 24 maggio del 1915. Fu, il 1916, un anno segnato da inumani carneficine (basti ricordare la Battaglia della Somme, sul confine franco tedesco). Anche l'Italia sopportò ingentissime perdite in occasione della "spedizione punitiva" dell'esercito imperiale e delle diverse offensive lanciate sull'Isonzo.
Per usare l'espressione del ministro degli esteri inglese, Edward Grey, con lo scoppio del primo conflitto mondiale, la luce si era spenta su tutta l'Europa. Il vecchio continente, sospinto da una miscela esplosiva di nazionalismi ed errori, si trovò precipitato nell'abisso della devastazione proprio mentre viveva un tempo di eccezionale progresso tecnologico, produttivo, sociale e culturale. Agendo come <sonnambuli> cancellerie e governi dell'Europa accesero la miccia di uno scontro che non si sarebbe esaurito dopo qualche anno ma proiettato i suoi venefici effetti fino ed oltre il secondo conflitto mondiale.
Noi siamo qui per ricordare e riconoscere il sacrificio di tanti giovani vite quella sera dell'8 giugno del 1916 e il contributo di sangue offerto da questa comunità all'Italia: a quel tempo un giovane Stato - da poco aveva festeggiato i 50 anni di unità - caratterizzato ancora da un debole sentimento nazionale.
Ma, occasioni come queste, trovano il loro senso più compiuto quando ci offrono l'opportunità di rinnovare nel nostro intimo e nella nostra coscienza collettiva l'imperativo "mai più guerre" insieme ad un altro imperativo altrettanto categorico: lavorare sempre perché si radichi nei cuori e nelle menti una cultura della pace.
Cultura della pace che non vuole essere solo rifiuto dell'uso delle armi ma adesione personale e collettiva all'idea che occorrono ponti e non muri, che solo un'instancabile, quotidiana e fiduciosa azione finalizzata a superare diffidenze ed ingiustizie può tenere lontana dalle nostre comunità lo spettro dei conflitti.
Lo dobbiamo ai noi stessi, alle generazioni che verranno ed anche alla memoria di quei giovani morti nelle acque dell'Adriatico per amore della patria.
Grazie