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Foto: Animals in War memorial, London ©CC BY-SA 3.0

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Lavoratrici che misurano il vetro per maschere antigas al Crowndale Works a Camden Town, Londra, 1918 © IWM (Q 28546)

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Documento conservato nel museo del Sacrario Militare di Asiago Documento conservato nel museo del Sacrario Militare di Asiago

8 Luglio 2015
News
 

Ferite, malattie e traumi da trincea

“Non toccare mai la ferita con le mani, né con altro oggetto contenuto nel pacchetto di medicazione”.

Durante la Grande Guerra esisteva un vero e proprio decalogo di comportamento per i soldati italiani colpiti dal fuoco nemico. Il curioso regolamento veniva assegnato ad ogni militare insieme al kit di medicazione che comprendeva garze sterilizzate, bende e tintura di iodio, ma che negli anni si completò di maschera antigas e occhiali protettivi a causa dell’uso massiccio di nuovi e orribili strumenti di morte, come le armi chimiche.

Di norma le postazioni per un pronto soccorso si trovavano subito dietro la linea del fronte, mentre le infermerie campali erano più defilate, al riparo dalle mire nemiche, dove i soldati potevano essere sommariamente curati e fasciati per poi raggiungere gli ospedali militari.

Era l'esplosione di una granata, una raffica di mitragliatrice a segnare la fine di tante giovani vite o l’inizio di un altro calvario tra dolore fisico e psicologico.

 

Il primo conflitto mondiale fu responsabile di circa 26 milioni di vittime tra civili e militari e di quasi altrettanti feriti e mutilati. Senza contare quanti rimasero offesi da epidemie violente o da turbe psichiche.

La mortalità tra gli infermi era molto alta non soltanto per le scarse conoscenze mediche dell’epoca e l’impossibilità di sfruttarle appieno nella zona del fronte, ma anche per le precarie condizioni igienico-sanitarie, spesso all’origine di infezioni ed emorragie. Al tormento delle lacerazioni si sommavano la fatica e il freddo, che soprattutto in alta montagna non lasciava scampo ai corpi avvolti da un equipaggiamento inadeguato.

E poi c'era la fame che non smetteva mai di ruggire nella mente e nello stomaco. Una fame che non si placava davanti alle gavette semivuote, con il poco cibo a disposizione conservato male e consumato in mezzo al fango e alla sporcizia.

Tutto ciò contribuì alla diffusione di germi, batteri, virus, e il primo conflitto mondiale divenne ben presto fucina di nuove patologie, come la febbre da trincea, il piede da trincea e il tifo petecchiale trasmesso dai pidocchi che infestavano abiti e coperte, rendendo così necessario ai vari reggimenti l'adozione di un apposito manuale d'uso degli spidocchiatoi da campo.

 

La guerra faceva paura perchè si traduceva in una varietà infinita di effetti nefasti. E questo valeva anche per coloro che riuscivano a mettersi in salvo dai colpi d'arma da fuoco e dalle epidemie. Il pericolo poteva essere, ad esempio, quello di portarsi dietro per sempre le conseguenze traumatiche dell'evento bellico con disturbi neurologici. 

Perchè i soldati sotto la costante minaccia di una morte improvvisa, scossi da botti, spari ed esplosioni, iniziarono a manifestare le cosiddette "nevrosi da guerra". La più diffusa fu lo Shock da bombardamento - nota anche come "shell shock" - che provocava tremore, allucinazioni ed estraneazione dalla realtà. Da qui l'espressione "Scemo di guerra" a indicare i reduci dai combattimenti affetti da forme di disagio psicologico.

L’emergenza innescata dall'arrivo dalle zone di guerra di soldati segnati da patologie di questo tipo fu affrontata attraverso l'istituzione di un inedito servizio neuropsichiatrico con intenti curativi e di studio, poiché si trattava di disturbi ancora poco conosciuti allora e, tra i medici, divenne di uso comune la pratica dell'elettroshock come tentativo di cura. 

Ma dopo un periodo di ricovero negli Ospedali psichiatrici molti militari, accusati di simulazione, vennero rispediti al fronte, provocando loro ulteriori sofferenze e annullando così ogni progresso raggiunto nel percorso di riabilitazione.

 

 

 

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